The Elephant Man
di David Lynch, USA-Gran Bretagna 1980 (123’) | Versione inglese con sottotitoli italiani
Strano il film lo è, in svariati modi. Anzitutto per ciò che David Lynch fa della paura. Quella dello spettatore (la nostra) e quella dei suoi personaggi, compreso John Merrick (l’uomo elefante). In tal senso, la prima parte del film fino al trasferimento all’ospedale funziona un po’ come una trappola. Lo spettatore si abitua all’idea di dover prima o poi sostenere l’insostenibile e guardare il mostro in faccia. […] E quando finalmente lo vedrà, sarà tanto più deluso in quanto Lynch finge allora di giocare al classico film dell’orrore: la notte, i corridoi deserti dell’ospedale, il crepuscolo, la fuga rapida delle nuvole sotto un cielo plumbeo e all’improvviso l’inquadratura di John Merrick seduto sul letto, in preda a un incubo. Lo vede – veramente – per la prima volta, ma vede anche che il mostro che dovrebbe fargli paura ha paura egli stesso. È a quel punto che Lynch libera il suo spettatore dalla trappola che gli ha teso all’inizio (la trappola del ‘c’è altro da vedere’), come a dirgli: non sei tu quello che conta, è lui, l’uomo elefante; non è la tua paura a interessarmi, è la sua; non è la tua paura di aver paura che voglio manipolare, è la sua paura di far paura, la paura che ha di vedersi nello sguardo altrui. La vertigine passa dall’altra parte. […] Nel corso del film John Merrick è oggetto di tre sguardi. Tre sguardi, tre epoche del cinema: burlesca, moderna, classica. O anche: il baraccone, l’ospedale, il teatro. C’è innanzitutto lo sguardo dal basso, quello del popolino, e lo sguardo (duro, preciso, brusco) di Lynch su questo sguardo. Ci sono sprazzi carnevaleschi, nella scena in cui Merrick viene ubriacato e sequestrato. Nello spettacolo da baraccone non c’è un’essenza umana da incarnare (nemmeno sotto le sembianze di un mostro), c’è solo un corpo da schernire. Poi c’è lo sguardo moderno, quello affascinato del medico, Treves (Anthony Hopkins, eccellente): rispetto dell’altro e cattiva coscienza, erotismo morboso ed epistemofilia. Occupandosi dell’uomo elefante Treves salva se stesso: è la battaglia propria dell’umanista (alla Kurosawa). C’è infine un terzo sguardo. Più l’uomo elefante è conosciuto e festeggiato, più coloro che gli fanno visita hanno il tempo di costruirsi una maschera, una maschera di cortesia che dissimula ciò che provano vedendolo. […] Il finale del film è molto commovente. A teatro, quando Merrick si alza nel suo palco perché coloro che lo applaudono possano vederlo meglio, non si sa più precisamente cosa c’è nel loro sguardo, non si sa più cosa vedono. Lynch è allora riuscito a riscattare – l’uno attraverso l’altra, dialetticamente – il mostro e la società. Ma solo a teatro, solo per una sera. Non ci saranno altre rappresentazioni.
Serge Daney, “Cahiers du cinéma”, n. 322, aprile 1981
Sezione: Ritrovati e restaurati 2020