copertina di Tano da morire
14 luglio 2023, 21:45
@ Piazza Maggiore

Tano da morire

(Italia/1997) di Roberta Torre (80') | Introduce Roberta Torre

La prima cosa da dire è che Tano da morire fa sbellicare dalle risate. La seconda è che non ci si limita a sghignazzare. […] Tano da morire è il primo film italiano che prende la mafia ferocemente per i fondelli, e ammetterete che ci voleva un certo coraggio (cinematografico e civile) per farlo. Il Tano del film è un micro-boss della Vucciria, gestore di una macelleria, che viene ammazzato da un killer. A furia di flash back, di finte inchieste tv e di spassosi siparietti, Roberta Torre ripercorre la sua vita e soprattutto il suo trucido rapporto con le sorelle, da lui segregate e costrette allo zitellaggio. La bruttissima sorella Franca riesce finalmente, morto il dittatore Tano, a sposarsi; un coro di “donne d’onore”, radunate dal parrucchiere, commenta questo matrimonio disonorevole, mentre i flash back ci ripropongono l’iniziazione mafiosa di Tano in una specie di cabaret dove dei mafia-boys in stile Febbre del sabato sera intonano Simme a mafia. […] Le travolgenti musiche di Nino D’Angelo, la coloratissima fotografia pop di Daniele Ciprì (che assieme a Franco Maresco compone lo storico tandem di Cinico Tv e dello Zio di Brooklyn), il gusto per un kitsch sudista che in certi momenti ricorda il cinema ‘zozzone’ di John Waters sono sicuramente componenti importanti del film, che però non sarebbe il gioiello che è senza le facce che Roberta Torre ha scovato. Sono tutti non professionisti: panettieri, osti, infermiere, casalinghe, agricoltori e pensionati che si mettono in scena con un’ironia devastante, giungendo a risultati di grottesco che degli attori veri non avrebbero, forse, mai toccato.
Alberto Crespi

Tano da morire conteneva in sintesi tutto quello che poi ho continuato a esplorare nel corso degli anni e tutti i codici che amo, direi un film-manifesto: una storia vera che nasceva dalla mitologia urbana, in quel caso era la storia di un piccolo boss di quartiere, un grande genius loci che sorreggeva tutto l’impianto drammaturgico, Palermo, e poi storie umane e attori che erano personaggi senza essere attori, facce che erano già ritratti. E poi la musica, spontanea e rielaborata, in quel caso era la musica neomelodica che non ha mai smesso di affascinarmi per il suo legame intrinseco con il territorio. Infine, la possibilità di destrutturare tutto e utilizzare dei codici narrativi classici trasformandoli, in quel caso il musical americano degli anni d’oro riadattato a musical di strada dove i danzatori erano marionette impazzite. La libertà di linguaggio che ha quel film mi ha permesso di mescolare un livello alto di narrazione con uno molto pop che ho sempre amato.
Roberta Torre