copertina di Lo spaccone
23 luglio 2023, 21:45
@ Piazza Maggiore

Lo spaccone

(The Hustler, USA/1961) di Robert Rossen (140')

Regia: Robert Rossen. Soggetto: dal romanzo omonimo di Walter S. Tevis. Sceneggiatura: Robert Rossen, Sidney Carroll. Fotografia: Eugen Schüfftan. Montaggio: Dede Allen. Scenografia: Harry Horner. Musica: Kenyon Hopkins. Interpreti: Paul Newman (Eddie Felson), Jackie Gleason (Minnesota Fats), Piper Laurie (Sarah Packard), George C. Scott (Bert Gordon), Myron McCormick (Charlie Burns), Murray Hamilton (Findlay), Michael Constantine
(Big John), Jake LaMotta (barista). Produzione: Robert Rossen per Rossen Enterprises. Durata: 134’
Copia proveniente da The Walt Disney Studios per concessione di Park Circus


Probabilmente il più bello, e sicuramente il più seducente, film di Robert Rossen, figlio di ebrei russi cresciuto nella povertà newyorkese del Lower East Side, sceneggiatore, produttore e regista dalla genialità rattenuta e convulsa e dalla vita tormentata: fu comunista, abbandonò il partito, inizialmente rifiutò di rispondere alle interrogazioni ai tempi di McCarthy, in un secondo tempo accettò, fece il nome di cinquanta colleghi ma si rifiutò sempre di tornare a Hollywood. Alcuni dei suoi film, per una ragione o per l’altra probabilmente resteranno nella storia del cinema. E forse più di tutti gli altri questo Lo spaccone, che affascinò il pubblico d’America e d’Europa con l’evocazione di uno ‘sport’ ‒ il biliardo a stecca con le regole americane ‒ di cui magari si ignora quasi tutto ma che emana comunque una sua carica di sapiente virtuosismo. Come spesso accade in Rossen il tema inquietante del successo, dell’assalto, metaforico o reale, al potere e ancor più a chi lo detiene e lo utilizza, il disegno minuzioso e crudele degli umani risentimenti e delle umane imperfezioni, assume un rilievo possente e doloroso.


Scandito da un collettivo momento di felicità del cinema americano del tempo e del regista stesso, il film vanta pienezza narrativa e felicità stilistica, ribadita dall’uso sapiente e già antico del bianco e nero: non a caso, in mezzo a tante nomination senza seguito, uno dei due Oscar conquistati dal film andò proprio al tedesco americanizzato Eugen Schüfftan, che era stato bravo in patria, bravissimo in Francia con Marcel Carné ed eccellente negli Stati Uniti. Inoltre, a ribadire la pienezza dell’opera, la sua perfetta aderenza a un ideale di cinema squisitamente e magistralmente divistico, ecco il gran livello dell’interpretazione. Paul Newman era in quel momento avviato a una carriera già clamorosa (paradossalmente non guadagnerà l’Oscar qui ma venticinque anni dopo, riprendendo lo stesso personaggio di Eddie Felson in Il colore dei soldi di Martin Scorsese). Tuttavia intorno a lui il talento non era minore. Jackie Gleason, da sempre poco conosciuto in Europa ma da sempre amatissimo in America, fu attivo al cinema e in teatro, dovette la sua grandissima popolarità alla televisione e il suo Minnesota Fats è ormai un classico. Piper Laurie è un’attrice di militanza diseguale ma di talento sottile, e George C. Scott, qui soltanto al suo terzo film, annuncia già una presenza importante e in certo senso minacciosa, da vero sergente dei marines, che, protagonista o caratterista poco conta, aveva la geniale capacità di riassumere una sotterranea cupezza da maschio americano.


Claudio G. Fava