Alice non abita più qui
(Alice Doesn't Live Here Anymore, USA/1974) di Martin Scorsese (112')
Regia: Martin Scorsese. Soggetto e sceneggiatura: Robert Getchell. Fotografia: Kent L. Wakeford. Montaggio: Marcia Lucas. Musica: Richard LaSalle. Scenografia: Toby Carr Rafelson. Interpreti: Ellen Burstyn (Alice Hyatt), Kris Kristofferson (David), Billy Green Bush (Donald Hyatt), Alfred Lutter (Tommy Hyatt), Diane Ladd (Flo Castleberry), Vic Tayback (Mel Sharples), Harvey Keitel (Ben Eberhart), Jodie Foster (Audrey). Produzione: David Susskind e Audrey Maas per Warner Bros. Durata: 112’
Copia proveniente da Park Circus
Scarica la cartolina della serata
A Hollywood hanno adorato Mean Streets, ma si sono convinti che potessi dirigere solo attori maschi! Ellen Burstyn, che era sulla cresta dell’onda dopo il successo dell’Esorcista, cercava un giovane regista per Alice non abita più qui. […] Ho pensato che fosse una buona idea, lavorare con un cast femminile per una volta, però volevo improvvisare qualcosina e cambiare il terzo atto. Sono stato soddisfatto solo in parte del risultato, perché abbiamo girato un film da tre ore e mezza e abbiamo dovuto ridurlo a meno di due. […] Non l’abbiamo mai intesa come una pellicola femminista. Era un film sulle responsabilità e su come le persone continuano a ripetere i medesimi errori.
Martin Scorsese
Si è parlato di Alice come di una road opera, dominata dal tema del viaggio, come una buona parte dei film della ‘nuova Hollywood’ degli anni Settanta. Ma quali strade percorre veramente la protagonista in cerca di un luogo ideale in cui rifarsi una vita dopo la morte del marito? Le strade non sono che piccoli e brevi raccordi: è un viaggio fortemente ellittico, sottinteso, quasi lasciato in disparte, dal momento che Scorsese – come ha scritto Michael Henry – non è con ogni evidenza “né un poeta della strada né un cantore degli orizzonti evanescenti della frontiera”. Aveva poco in comune con le abitudini e i modi di vita del Sud-Ovest (come ebbe a dire, ridendo di gusto, all’amico George Lucas che voleva affidargli un ruolo in American Graffiti): per lui gli spazi aperti di California e Arizona non significavano granché se non come spazio filmico degli eroi fordiani ammirati al cinema. Tuttavia accettò di fare il film per “cambiare aria”, e perché gli dava l’opportunità di affrontare le strutture elementari del melodramma superandole mediante l’adozione di moduli narrativi più vicini ad altri generi, o sottogeneri, in voga a Hollywood tra il ‘40 e il ‘50, come la screwball comedy e il women’s picture […]. Alice non ha nulla delle ombre scure del dramma o del melodramma, è un film di luce, di aria, di spazio (pur relativo). A Scorsese, uscito momentaneamente dalle tenebre della metropoli, interessava mostrare una possibile via di sbocco alle energie vitalistiche frustrate dall’angoscia degli spazi chiusi di Mean Streets, anche se poi – a ben guardare – ci si rende conto che la violenza è anche qui sempre in agguato […]. Il nodo centrale del problema consiste nello stabilire in quale punto del ‘viaggio’ la protagonista acquista coscienza del suo definitivo distacco dal mondo dorato dell’infanzia e dai sogni di gloria (la speranza ingenua di diventare cantante più brava e famosa di una delle più brave e famose, Alice Faye). Sembra cosciente e matura fin dall’inizio del viaggio. Sa di dover affrontare difficoltà economiche e di adattamento a nuovi ambienti. […] Ma incrinature e dubbi cominciano quasi subito a farsi strada. Alla fine Alice è con le spalle al muro, costretta ad ammettere, con sconsolata sincerità verso se stessa, che si è sbagliata: Alice Graham Hyatt non può effettivamente restare senza un uomo accanto. […] Il finale di Alice non abita più qui – come ogni finale scorsesiano dopo Mean Streets (e in fondo, anche prima) – si presenta aperto, neutro. Ma lascia l’amaro in bocca.
Gian Carlo Bertolina